lunedì 20 ottobre 2014

IL DESERTO, L'ACQUA ED IO


Laudato si’, mi’ Signore, per sor’aqua,                                                                               
la quale è multo utile et humile et pretiosa et casta.

Voi non sapete quanto siete fortunati. Andare in cucina,  aprire il rubinetto e bere a volontà… passeggiare in città e fermarsi ad una fontana a bere… sostare ad un autogrill e acquistare una bottiglia di fresca acqua minerale e bere… ma un terzo della popolazione mondiale non ha questa fortuna. Non mi dilungo sulle cifre che possono essere controllate su internet con i motori di ricerca.  Voglio solo riportarvi delle esperienze personali che mi hanno fatto capire cosa significa l’acqua, quel liquido che noi sottovalutiamo solo perché ne abbiamo in abbondanza…finora. 

Quando vi recate in montagna per una escursione in estate e riferite che avete sofferto la sete perché magari il fontanile era secco e la gita si è prolungata un po più del previsto, non sapete neppure cosa dite. Quella è “arsura”, non sete…la sete è un’altra cosa.
 
La sete è quel mostro che si insinua nella vostra testa già al risveglio, quando sapete che dovete affrontare il caldo e non ne avete abbastanza. E’ quella idea fissa che vi costringe a controllare continuamente la tanica nel portabagagli della bici con il terrore che qualche sobbalzo possa averla bucata e aver perso il prezioso liquido e con lui, la vostra vita.

La tanica con l'acqua legata sul portabagagli della bici. Li è legata la mia vita...
 
 E’ quel nemico che vi fa cedere improvvisamente le gambe, che vi blocca nel deserto con i crampi nei muscoli più impensati e che neppure pensavate di avere, quel nemico invincibile che vi acceca la vista e vi fa sentire rumori inesistenti. E’ quel mostro che vi fa odiare la vostra sudorazione che vi raffredda, ma che vi fa perdere ulteriormente acqua, che vi fa succhiare le gocce salate che cadono dalla vostra fronte per recuperare almeno un po di sali.

E’ quel pensiero fisso che supera e zittisce ogni altra vostra preoccupazione od esigenza. E’ quel vampiro che succhia la vostra anima. Ed io devo combattere questi mostri per poco tempo, magari arrivare al limite della resistenza, ma poi so che posso recuperare, che posso riposare fin quando il mio corpo non sarà nuovamente idratato, tonico, pronto per nuove partenze.

Ma c’è chi deve combattere tutti i giorni una battaglia epica e di questi, OTTO MILIONI  ogni anno soccombono alla sete tra le sofferenze più atroci. L’aumento della popolazione mondiale porterà ad un consumo di acqua enorme e nel 2050 metà della popolazione mondiale non avrà acqua a sufficienza. Ma queste notizie, come ho detto, sono sulla rete. La prima volta che attraversai il deserto non sapevo nulla, mi fidavo solo della mia forza fisica e del mio allenamento, ma ben presto dovetti accettare che questo non era sufficiente. Nel deserto, in estate, di giorno, sotto il sole, si perdono 1.5 litri di acqua l’ora. Quindi in 5 ore, le piu calde si possono perdere 8 l. di sudore e quando si perde il 10% del proprio peso in acqua, si muore per disidratazione.
 
Solo i cammelli possono perdere il 36% del proprio peso e sopravvivere. Una tribu bedu si vanta di essere la più resistente del deserto e dice che i suoi componenti possono resistere due giorni nel deserto, camminando continuamente, senza acqua. Le persone che riferiscono di  essersi perse nel deserto in estate, e di aver camminato per giorni e giorni, anche settimane, bevendo la propria urina, sono solo ingenue leggende. Io in una occasione, restai un solo giorno senza acqua, a 58 gradi, e solo dopo due giorni di reidratazione, riuscii ad espellere una urina densa e maleodorante.
 
 La prima volta che ebbi dubbi sulla mia resistenza stavo attraversando una piana terribile e mi accorsi che non avevo forza alle gambe, mi mancava il respiro. La disidratazione aveva iniziato la mia demolizione senza che io ne avessi minimamente preso coscienza. Quell’anno feci molte escursioni per testare fino a che punto potessi sfidare non il deserto, ma la sete. Tutto qua, l’unico nemico sei tu, la tua debolezza, la tua esigenza di liquidi, non il deserto.

Salii il gebel at el Garib per testare la mia resistenza.
 ( http://viaggievisioni.blogspot.it/2012/04/il-test-il-gebel-at-el-gharib_01.html
Man mano mi rendevo conto della indispensabilità immediata di quell’elemento che per noi è importante, ma di cui non conosciamo assolutamente l’essenzialità. Questa presa di coscienza mi convinse a rinunciare totalmente a portare cibo per traversate di due giorni a favore di acqua. Mezzo chilo di cibo non è condizionante, non succede nulla, ma mezzo litro di acqua può salvarti la vita quando si viaggia al limite della disidratazione. Inoltre la digestione consuma ulteriormente acqua. Un giorno incontrai una carovana composta da cinque persone, marito, due mogli e due figli. Un bimbo piccolissimo camminava avanti alla famigliola, con i suoi minuscoli piedini nudi sulla sabbia rovente.

Andavano ad un pozzo lontano 80 km di cui non sapevano neppure se avesse ancora acqua. Questo è il dramma del Sahara. I pozzi si stanno seccando perché la falda freatica si sta abbassando e il deserto sta nuovamente impadronendosi del reg, dell’erg e della hammade. Il Sahara è poggiato su un lago di acqua profonda, acqua del quaternario. Il pompaggio di tale acqua sta abbassando il livello dell’acqua superficiale. Gli uomini che vivono nelle terre sahariane e sub sahariane non sono in grado di scavare pozzi di 3000 m. di profondità per attingere acqua e quindi hanno gravissimi problemi di approviggionamento idrico.

 
Io nelle mie traversate ho trovato pozzi quasi secchi che negli anni successivi sono stati totalmente ingoiati dal deserto o sono stati smontati. Le carovane si accampano lontano dai pozzi per far si che i bimbi non considerino l’acqua come un bene di consumo o per giocare. Per bere o prendere acqua devono fare diversi Km.  Un giorno salivo verso le pendici dell’Atlante dal versante algerino, quando vidi una voragine aprirsi sotto i miei piedi.
 
Era una grotta e il soffitto aveva ceduto sotto il mio peso. Nessun problema, ma immaginate la mia meraviglia quando mi accorsi che dentro vi scorreva un ruscelletto di acqua freschissima. Inutile dire che bevvi fino a scoppiare perché erano 12 ore che pedalavo sotto un sole impietoso. Poi seppi la verità su quelle gallerie. Nei deserti le oasi possono essere spontanee, li dove c’è una sorgente, oppure, ed è la maggior parte, le oasi sono create dall’uomo anche dove non c’è acqua. Le  foggara sono un intricato dedalo di gallerie artificiali che convogliano l’acqua che è stata catturata per condensazione della pur scarsa umidità o per percolazione dalle micro cavità. L’uomo delle acque si incarica di tenere in efficienza tali gallerie anguste e in pericolo continuo di crolli. Purtroppo la perdita di identità e della cultura di tali popolazioni sta facendo si che le foggare siano ormai inefficienti e le oasi stanno morendo.  Una delle mie esperienze più traumatizzanti con l’acqua è stata la mia traversata di uno wadi nel sinai dove rimasi senza acqua per la rottura della bici .
( http://viaggievisioni.blogspot.it/2012/04/prima-uscita-in-bicicletta.html )
Ma il deserto, qualche volta, si diverte a sommergerci di acqua come quella volta in cui assistetti all’alluvione dell’Hammada Rbat.
http://viaggievisioni.blogspot.it/2012/04/blog-post.html )
 
 Voi mi direte che con un'alluvione, le sorgenti si sono rimpinguate, ma nulla di più sbagliato. La quantità di acqua che cade nel deserto in quelle occasioni è talmente alta ed improvvisa che l’unica cosa che si ottiene è la distruzione e l’ulteriore desertificazione.
 
Una sera, al tramonto del sole, in uno wadi, mi ero fermato per assistere allo spettacolo, quando, contro il sole, vidi una sagoma ondeggiante. Mi raggiunse un nomade con due cammelli. Si sedette vicino a me e mi offrì dei datteri ed un po di pane. Io tirai fuori del formaggio ed iniziammo a mangiare discutendo ognuno nella sua incomprensibile lingua.
Il bedu lo fotografai solo quando si stava allontanando nel buio incombente
Mi chiese dell’acqua e solo quando si accertò che io proprio non ne avevo più, tirò fuori la ghirba e mi offrì la sua acqua che sapeva di rancido. Le ghirbe sono pelli di capra chiuse usate come otri. Hanno la caratteristica che essendo traspiranti, fanno evaporare all’esterno un po di umidità mantenendo fresca l’acqua nel suo interno.  
 
Oggi, per chi va a Marrakesh, vedrà i folcloristici portatori di acqua,  ben visibili a causa delle purpuree vesti ed il cappello a larghe falde, che danno da bere acqua attinta dalle ghirbe che portano a tracollo, chiaramente con un solo bicchiere d’argento.  Ormai è solo folclore, ma i locali ancora se ne servono. Comunque è un modo per vedere le ghirbe. Un giorno mi ero incamminato in una valle che credevo avesse una uscita verso uno wadi vicino ad un villaggio, ma trovai il passo impraticabile. Dovetti tornare indietro e dopo aver camminato per 9 ore mi accinsi a traversare la piana di 15 km, prima di arrivare alla meta. 
 
Alle 15 del pomeriggio l’aria tremava per il calore, sembrava quasi avesse un’anima malefica. Distruggeva lentamente la mia resistenza. Iniziai ad avere la lingua che si incollava al palato, la mia saliva era finita, le gambe molli, la testa dolente mi batteva all’unisono con il mio cuore accelerato. Rallentavo visibilmente la mia andatura e iniziai a dubitare di arrivare indenne al villaggio. Mi vennero in mente racconti di uomini trovati morti a due km dalla meta. Ma come una fiaba a lieto fine vidi una nuvola di polvere che si avvicinava.


 
Diventava sempre più veloce finchè mi accorsi che si trattava di un fuoristrada. Si fermò e scesero due bedu che evidentemente conoscevano i sintomi della disidratazione, per cui mi chiesero se avessi bisogno di acqua. All’inizio ebbi qualche dubbio a via dell’acqua salmastra dei pozzi del deserto e per di più con sapore di grasso rancido per le ghirbe.
 
Poi decisi che qualunque liquido sarebbe andato bene, purchè fosse un liquido. Immaginate la mia sorpresa quando alzarono il telo del fuoristrada e vidi un frigorifero fornito di acqua, coca cola, birra, e ogn’altra bibita. Tutto questo ben di dio veniva portato in un posto dove i turisti consumavano la cena beduina. Accettai una bottiglia di acqua che ancora conservo, per ricordo. Non riuscii a pagare la bottiglia, si dichiararono offesi del mio gesto. Nel deserto non si rifiuta mai l’acqua.
“Ciò che rende bello il deserto, disse il Piccolo Principe, è che da qualche parte nasconde in pozzo”( Antoine de Saint Exupery)

Ma non sempre il deserto è così crudele, qualche volta ci riserva doni inattesi. Una volta ero in esplorazione per trovare un passaggio tra due anguste valli in Marocco che mi avrebbe permesso di accedere alle vette più alte senza fare un giro enorme. Ormai avevo perso le speranze perché il terreno era quasi impercorribile a piedi ed io mi trascinavo dietro la bici dalle 6 del mattino ed ormai il sole mi aveva ustionato, se non  la pelle coriacea, almeno il cervello, e sicuramente il calore  aveva fiaccato la mia proverbiale ostinazione ad andare avanti a qualunque costo.
 
Dopo una discesa avventurosa su una parete, superata in una spaccatura provvidenziale, mi ritrovai in un piccolo laghetto formato da un flebile ruscelletto che colava, goccia dopo goccia, da una roccia nerastra. Urlai, esultai, mi gettai nell’acqua, bevevo la stessa acqua in cui mi bagnavo senza ritegno e senza pudore anche se avevo intorpidito l’acqua con i miei movimenti inconsulti.

 
Nessuna acqua fu più buona anche se aveva una consistenza pastosa e più che berla dovevo ingoiarla… Tutto andò bene, quella volta. Ma un’altra volta non fu così. Salivo verso il Toubkal, la più alta montagna dell’Africa del nord (4156 m.), in Marocco, ma siccome rifuggo le vie ufficiali, preferii seguire il mio istinto e percorrere un tragitto che mi inventavo momento dopo momento.
 ( http://viaggievisioni.blogspot.it/2012/04/il-toubkal.html )
A 3200 m la temperatura era ancora a 32 gradi all’ombra e  siccome non avevo la più pallida idea di dove andassi, e quindi non sapevo se fossi tornato in giornata o nei giorni successivi, ebbi la buona idea di bere nel ruscelletto che ogni tanto compariva tra i sassi per risparmiare la mia acqua.
 
L’acqua era fresca, buonissima e ne bevvi a profusione essendo sicuro che sopra di me tutt’al più potevano esserci solo poche capre, quindi l’acqua doveva essere potabilissima, almeno con i miei parametri. Immaginate quale fu la mia sorpresa quando sbucai ad una radura a 3300 m. e vidi che c’era un popolatissimo campo di alpinisti che serviva per poter salire la cima in due o tre giorni.
 
 Il fatto era che un bagno era stato posto vicino al torrente e gli umani facevano i loro bisogni nel torrente che serviva poi anche per le abluzioni. Il risultato fu che ebbi una infezione intestinale terribile che mi mise completamente KO e che mi trascinai anche al ritorno.  In Rajastan, c'è il Gan Deserto di Thar,
http://viaggievisioni.blogspot.it/2013/09/jaisalmer-ed-il-grande-deserto-di-thar.html
 che si estende tra India e Pakistan, l’acqua la rifornisce il solo monsone, che quindi viene atteso con molta ansia.

Le donne scavano pozze enormi, a forza di braccia e zappe e trasportano via la terra con cesti di paglia. Io arrivai in pieno monsone e qualche giorno prima aveva piovuto molto. Si era finalmente formato un laghetto nei pressi del villaggio e le donne trasportavano continuamente l’acqua dentro le case con una sorta di conche, posizionate sulla testa.


I loro variopinti vestiti e i movimenti flessuosi, uniti alla proverbiale bellezza delle rajastane, ne facevano uno spettacolo affascinante. La maggior parte dei pozzi del deserto hanno un’acqua che qui da noi sarebbe considerata quantomeno velenosa. Il sapore è variabile, dall’acido, all’amaro, ma ciò che lega tutti i pozzi è l'alta quantità di sale che è disciolto in essa. Questa cosa in realtà non è del tutto negativa perché con il sudore si perde una quantità di sale smisurata. Io porto del sale grosso ed ogni tanto ne ingoio un grano, quando sono impegnato nelle traversate. Alcuni pozzi sono particolarmente salati e vengono utilizzati per purgare i cammelli.  E’ bene stare attenti a non bere quell’acqua altrimenti lascerete la vostra scia maleodorante per tutto il vostro cammino e questa è una cosa assolutamente da evitare non tanto per l’odore, ma per la contemporanea perdita di acqua. Quando pedalo nel deserto porto con me una 20ina di litri d’acqua e quando ne ho consumata circa la metà, se non ho trovato come rifornirmi di acqua, devo tornare indietro.

 Allora mi viene da pensare che con una sola tirata dello sciacquone del mio bagno, potrei andare avanti un altro giorno, ma il pensiero mi corre a chi non ha acqua e solo con tutte le tirate di sciacquoni di una famiglia, potrebbe vivere un villaggio. Ecco, prima o poi dovremo fare i conti con la mancanza d’acqua,questa è una cosa certa.
Sarebbe bene che ognuno di voi facesse una gita nel deserto, camminasse per due giorni sotto il sole con una semplice borraccia e provasse cosa vuol dire la sete, quella vera, quella che ti toglie l’anima e distrugge ogni volontà.

sabato 22 marzo 2014

COME ERA VERDE LA MIA VALLE...


Tornare nel Sinai…decine di volte sono stato nel Sinai. Il luogo dove riposa la mia anima, che ritempra  il mio inconscio…li dove“….il signore dei fedeli tolse ogni animale e cosa, finchè potesse riposare in pace”. Passarono due anni dal terremoto e poi ebbi bisogno di tornare nel Sinai. Il mondo mi aveva distratto dal Sinai, fui  attratto da altri deserti, da altre lande, da altre montagne. L’Africa nera, i deserti medio orientali, le lande magiche di Brama, di Shiva e di Visnu… traversai altre sabbie, respirai altre albe, altre notti, altre stelle,  salii altri monti, mentre laggiù il Sinai attendeva il mio ritorno.
Sapeva che sarei tornato da lui, che sarebbe giunto il momento in cui avrei avuto bisogno di lui…attendeva paziente.  Quelle terre figlie dei terremoti, li dove si scontrano i continenti, li dove passa la ferita più grande e profonda della terra, quelle terre forse sapevano che un suo piccolo figlio sarebbe venuto a farci visita. E venne nel 2009, un piccolo terremoto confrontato a quelli del Sinai, distrusse la mia città e rubò tutto quello che avevo.
casa mia......
 
Migliaia e migliaia di persone fuggirono senza nulla addosso e senza nulla rimasero. I più fortunati persero tutto, ma non i loro cari.  E il Sinai attendeva….Resistetti un anno, curando le mie ferite e tentando di curare quelle degli altri…poi tornai da lui. Partii quando sentii di dover andare di nuovo laggiù, quando ebbi la coscienza che nessun altro posto nel mondo mi avrebbe consolato. Dovevo stare con me stesso e solo li sapevo che questo sarebbe successo. Sapevo che solo quelle sabbie, quelle montagne, quelle solitudini mi avrebbero consolato.
Forse questo cercava  Mosè e nel Sinai lo trovò.  Partii un giorno con la mia bicicletta, emozionato come un ragazzino al suo primo appuntamento, carico di attese, sicuro di rifornirmi di energie vivificanti, come tante e tante volte. Però erano passati alcuni anni, qualcosa nel Sinai era cambiato. Nel deserto le montagne, le rocce sono state distrutte dal tempo e si sono trasformate in sabbia. Nulla può essere più distrutto, tutto quindi ora era  immutabile nella sua distruzione…
Questo credevo, invece il deserto era cambiato, o forse no…forse ero cambiato io. Forse però nulla era cambiato, tranne i miei occhi. Questi occhi avevano visto la morte, la distruzione, il dolore, la disperazione, le urla, non potevo credere di essere rimasto lo stesso. Il deserto era solo la materializzazione della mia anima, quindi doveva affrontare un terreno sconosciuto, lo stesso terreno che tentavo di lasciare nella mia terra, ma che mi tiravo inesorabilmente dietro.
Era appiccicato a me, lo portavo dietro come bagaglio a mano, chiuso dentro il mio amico zaino… che aprii appena sceso dall’aereo. Il vento torrido mi accolse all’apertura dello sportello dell’aereo, il caro vento torrido che asciuga le mie malandate ossa e che spaventa chi per la prima volta atterra dopo una permanenza di tre ore nella cabina climatizzata dell’aereo.
Ma è il vento amico che mi porta notizie del deserto, che mette in vibrazione l’aria a seconda dei luoghi da cui proviene. Assorbe il calore e l’odore delle lande che percorre e lo trasporta fino alle mie narici, ai miei occhi, alla mia mente. Tutto percepisco, tutto decodifico appena vengo a contatto con esso, mentre vicino a me alcuni turisti già si lamentano e si pentono della decisione presa di aver scelto per la vacanza questi luoghi alla fine di luglio.
MI pervade una sorta di frenesia, vorrei scendere e perdermi tra gli wadi mentre attendo che mi scendano la bicicletta dall’aereo. Sistemo tutto, è ancora pomeriggio, potrei andare e tornare a notte fonda, percorrere km e km, conosco tutto, non avrei problemi, ma scelgo di scendere alla scogliera ed immergermi nelle acque salmastre e popolate di una miriade di pesci multicolori.
Galleggio come un tappo con gli occhi rivolti al sole morente dietro i monti fiammeggianti, ho deciso così per prolungare il piacere dell’attesa. L’attesa è un piacere sottile che ti pervade in vista di ciò che avverrà quando tieni particolarmente a qualcosa. Nella tua mente si proietta il film dell’incontro, lo immagini così come vorresti che fosse, lo fai diventare realtà, tanto reale diventano questi pensieri, che modificano poi l’evento tanto che sarà giocoforza come la hai immaginato e creato.   Ma attendo la notte, esco respirando l’aria che scorre dal deserto, sotto le stelle offuscate dalle luci del villaggio della Springtour. Nella notte preparo la bici, la carico di acqua…non dormo e quando il sole neppure ha iniziato ad illuminare il mio cammino, parto.  Una decina di km su una strada asfaltata, poi ecco il villaggio di el Rouweisat, ormai enorme,
 una accozzaglia di case stile popolari, strade ripiene di bottiglie vuote che il vento trasporta a piacimento, fumi di camion, rumori, sotto la cima del gebel Ruweisat el Nima.
Qui c’era un villaggio di tende, caprette scorrazzavano sul deserto, due acacie erano contese dai cammelli, i bimbi inseguivano le capre disobbedienti.
Il villaggio come era.....
 
Poi furono sfrattati, bisognava edificare  alloggi per gli operai che costruiscono case e per i nuovi residenti. Mi sono seduto, ho parlato con i vecchi  bedu muzeina. Sono stati sfrattati, hanno dato loro un appartamento fornito di aria condizionata, una gabbia in cambio della loro sacra terra, dove dimorano i djinn. Ma la notte non possono dormire tra le mura tetre e si sdraiano poco lontano, nel deserto, sotto le stelle, a gruppetti, come mucchi di stracci, come facevano una volta, come avevano fatto da tempi immemori. Così li ho trovati, una notte, di ritorno da una traversata…mucchi di stracci…una volta erano nobili…
Ormai il villaggio è talmente vasto che si permette una periferia. Una favelas di case fatiscenti, costruite alla rinfusa con mattoni cotti al sole, con i tetti in foglie di palma, oppure coperte da cartoni e bandoni metallici. Un impeto di rabbia, una stretta allo stomaco, mi allontano il più velocemente possibile da questo scempio urbano e sociale, da questa barbarie culturale. Pedalo veloce per fuggire, fuggo senza voltarmi…voglio respirare l’aria del deserto…
Tutto il territorio che percorro mi è familiare fino all’inverosimile. Le piste che conosco sono state cancellate dalle piogge che quest’anno devono essere state abbondanti.
Sul terreno si vedono le tracce che le meteore hanno lasciato, scavando i rivoli che sono rimasti come pennellate in un quadro ad olio. Ma quello che più è evidente è la bassa vegetazione che non avevo mai visto in queste zone nello stesso periodo.
Incontro jeep cariche di beduini che vanno ad un villaggio mobile, evidentemente posizionato nell’interno del wadi Sahara, lo segue un cane, cosa molto rara.
Continuo il mio cammino ma quello che mi distrae è un rumore sordo, una specie di tuono, un rullo di tamburi. Una nuvola grigia avanza velocemente verso di me e nasconde l’orrendo rumore. Ora il convoglio procede in una zona brecciosa dello wadi, la polvere svanisce e tutto appare.
Sono quad, le motociclette a 4 ruote. Non era mai successo che si fossero spinte fin quaggiù, generalmente non superavano le montagne del gebel Wa’ir. Ma qualcosa deve aver dato il coraggio a questi mostri meccanici che tutto distruggono, inquinano. Le loro urla ingoiano il silenzio immacolato degli wadi, allontanano i folletti del deserto, iDjinn che per millenni e millenni erano stati i padroni incontrastati del deserto.
Ora non sentivo più la loro presenza, il deserto era veramente …”deserto” nel suo significato più crudo. “desere”...abbandonare. Devo andare più all’interno per tentare di trovare il mio deserto che ora forse si è rintanato li dove l’orrida civiltà non potrà mai arrivare.
Pedalo…pedalo...supero montagne, scendo valichi mentre il sole certo non rallenta il suo cammino. Il caldo tenta di fermarmi, ma non mi faccio intimidire. Ormai so dove può arrivare, ma principalmente so dove posso arrivare io, quale è la mia resistenza, anche se è qualche anno che sto lontano dal mio rifugio psicologico, dalla mia valle verde dove riposava la mia anima.
Un’ultimo valico, spingendo la bici con le forze ormai ridotte al lumicino e scendo in uno wadi. Di lontano una montagna ha dei canaloni bianchi, sembrano canaloni in cui è rimasta l’ultima neve. Nella valle alcuni alberi sono fioriti come mandorli di questa strana primavera. Vado a vedere, ma man mano che avanzo mi rendo della realtà. Ecco gli alberi fioriti.
Sono fioriti di buste di plastica che il vento trasporta dalla costa e che vengono catturate dalle spine delle acacie. Una sorta di orrendo e fetido albero di natale. Alcune buste già sono strappate, altre sono ancora sono intatte, altre più recenti emanano odori nauseabondi ancorpiù amplificati dall’aria pura del deserto. Tutte però sbattono contro i rami oscillando al perenne vento del deserto. Le spine le tagliano, le sbriciolano, le distruggono pian piano e il vento  porta via i pezzi più grandi come foglie morte e i pezzi più piccoli come polline mortale.
Mi copro la bocca con la kefiah per non respirare questo polline che porta con se quello che più odio e mi allontano verso i canaloni innevati, ma anche questa volta il cuore mi si ferma con un tonfo. Non è biancore immacolato della neve, sono le bottiglie di plastica dell’acqua che rotolando e volando si sono accumulate nei canaloni e riflettono i raggi del sole in un albedo mortale. L’angoscia mi pervade, vorrei fuggire come tentò di farlo  il dott. Jonathan Harker dal castello di Dracula .
Mi sento prigioniero di una gabbia invisibile, ma insuperabile. Sono come un piccolo animale preda di una fiera che ha marcato il proprio territorio e che dovunque fugge, sente l’odore della cacciatrice e non osa passare. La civiltà distruttrice ha marcato il territorio e io sento dove ha depositato i fetidi ferormoni e non riesco a superare questi territori.
Poi mi faccio forza, e trattenendo il respiro e chiudendo gli occhi, valico un passo….La notte incalza, non voglio stendermi su questo terreno immondo, non riuscirei a dormire controllato da questi guardiani orrifici, senza la compagnia dei folletti, delle fiabe. Mi avvio al ritorno, ma ormai è notte e la notte nasconde gli orribili scenari che devo ripassare.
La notte è mia amica e nasconde la nausea, mi da coraggio come lo ha fatto tante volte. Il cielo è tappezzato delle mie consolatrici stelle. Lo Scorpione già alto nel cielo, mi scorta fino alle luci del villaggio che ora sono visibili km e km rispetto a quanto lo erano solo qualche anno fa. Spengo la lampada della bici quando ancora mancano una ventina di km, l’inquinamento luminoso è sufficiente ad illuminare il mio cammino con la   luce spettrale delle lampade al mercurio. Non riesco a dormire nel comodo letto della mia stanza climatizzata.
La mia mente visualizza il vecchio deserto, puro, appena usciti dal villaggio, i cammelli con il loro incedere ondeggiante appena fuori delle ultime case e queste a poche centinaia di metri dalla costa. Ho l’ansia di chi crede di  aver perso la sua amata, ma che si attacca alla speranza che essa non lo abbia abbandonato, ma che la sua assenza sia solo un momentaneo silenzio di cui però non si spiega la ragione.
Allora bisogna di nuovo andare laggiù, forse la fata e la magia hanno solo spostato il loro regno, per fuggire la civiltà, ma in cuor mio ho la paura che ormai anche quaggiù non troverò la mia fata, dopo averla persa anche a monte Calvo ed averla cercata inutilmente per tanti anni.  http://viaggievisioni.blogspot.it/2012/03/ci-sono-luoghi-sulla-terra-che-la.html Ognuno di noi ha bisogno della sua fata che popoli il regno della sua fantasia e dei suoi sogni, ma nessuno se ne rende più conto perché le sue necessità sono totalmente soddisfatte dagli smartfones, dalle automobili, dalla voce ingannevole della strega della nostra realtà, una strega malefica che si trasforma facilmente nella nostra fata, ingannandoci. 
Io la cercavo nel deserto, nel mondo che vivo la fata non esiste, per quanto  possa averla cercata, credendo di poterla trovare. Questo è il mondo magico dove mi rifugio spesso, ma dove nessuno è mai venuto con me ormai da tanti anni ed io farò bene ad abbandonare la ricerca. Allora senza il mio mondo onirico, mi sarà più facile accettare un deserto popolato da moto quad, da buste di plastica che abbelliscono gli alberi di acacia, dai rumori assordanti, ma che per tutti non sono altro che musica soave.
Allora potrei accettare i canaloni riempiti di bottiglie ed anzi, questo simbolo del nostro mondo, potrebbe consolarmi perché mi farebbe sempre compagnia. Ancora è notte, ma parto dopo poche ore di riposo. Parto da solo, senza la mia fata, senza la mia principessa del  magico mondo che mi affanno inutilmente a creare, affrontando da solo un deserto che ormai è diventato un mostro chimerico. Certo, centinaia e centinaia di km nell’interno nulla è cambiato.
Ma io viaggio con i piedi e la bici, spingendola faticosamente sulla sabbia e la breccia. Il mio “areale” (il territorio di competenza di un animale) è limitato….ed ora sta scomparendo. Salgo in uno wadi qualunque, cosa importa il nome, quando albeggia. Non so perché la gambe mi portano verso un posto che non conosco, ma non mi interessa sapere dove sto andando, non ho la coscienza del mio cammino, cosa importa?
Valico una bassa catena di monti, scendo altri wadi, li supero, li seguo per evitare altre montagne. Mi siedo sotto un monte bellissimo per riposare sotto il sole impietoso, ma le rocce ustionano e mi permettono solo di fare una fotografia.
Non voglio avere volontà, mi lascio trasportare dal deserto, ma questa volta non ho la compagnia delle fiabe, dei folletti, non mi guidano questi esseri magici, mi guida solo la mia mente che è sola con se stessa, senza la sua fata.
Salgo un’ultimo wadi quando mi accorgo di essere arrivato alla diga di sassi che sbarra la valle che sfocia al wadi Madsus, li dove costruii la tomba di Filippo. http://viaggievisioni.blogspot.it/2012/11/lultima-traversata-insieme-filippo.html  Mi affaccio al wadi, guardo, ma non oso proseguire, forse lo farei se avessi la mia fata con me, se mi accompagnasse la mia principessa, se credessi ancora nelle fiabe del deserto.
Filippo è in ogni posto dello Wadi, non è sepolto sotto la piramide di sassi, non serve ritrovarlo. Torno a sud ovest e scendo in altri wadi, altre strade, altri monti, con la gola stretta. Salgo su una sella difficile e non so se al di la la via possa essere percorribile. MI affaccio e vedo lontano il mare, la via è aperta.
Scendo per km in uno wadi stretto, dapprima angusto e chiuso tra anguste pareti. Poi si allarga in una piana perfetta, ma mi sento a disagio.
So per certo che queste sensazioni significano sempre qualcosa e sto all’erta, torno nella realtà, abbandono l’idea di essere in compagnia della mia principessa che non esiste, e mai esisterà, di cui non visualizzo il volto, eppure mi fa compagnia.
Cammino spingendo la bici su un terreno inconsistente e decido di passare sul bordo in cerca di un terreno più solido, anche se più roccioso. Incontro alcuni razzi, proiettili, bombe, da cui mi tengo diligentemente alla larga.
Le rocce rendono difficoltoso il mio cammino e mi costringono a tornare nello wadi. Ormai sto quasi allo sbocco dello wadi , vedo da lontano un reticolato che sbarra il cammino. Alcuni cartelli sono rivolti verso la costa. “campo minato”…

“ Attenzione Mine”. Ho camminato per ore su un campo minato. Non mi faccio impressionare, ormai sto fuori, è inutile preoccuparsi e poi credo che siano mine controcarro che esplodono solo con grossi pesi...FORSE ! .
Un’ombra improvvisa nel sole morente della sera avanza velocissima verso di me.

E un solifugo,  l’enorme ragno delle sabbie, Non è velenoso ma un morso inferto dalle sue enormi chele può risultare molto doloroso. Si ciba di insetti, ma anche di topi ed uccelli, viste le sue proporzioni. E’ molto territoriale ed attacca chiunque invada il suo territorio con una rapidità impressionante (16 km/h). Ed ora sta attaccando me. Un ragno grande quanto il palmo della mia mano, chele minacciose alzate al cielo sta arrivando ai miei piedi e non ha alcuna intenzione di fermarsi.
Dopo aver tentato di convincerlo con le buone maniere, gli sferro un calcio che evidentemente ottiene il suo effetto, visto che si allontana mestamente, sconfitto.

Ormai vedo la costa e scendo veloce con la bici, un’ultima valle…li si che devo superare la vere mine, quelle più rischiose. Un’accumulo infinito di immondizia nauseabonda mi sbarra il cammino.
Arde lentamente emanando fetida diossina. Non so dove andare, tutto è sbarrato. Trovo una strada aperta tra le immondizie e mi ci ficco. Passo con la kefhia sul naso mentre gli occhi mi bruciano per il fumo acre. Ecco, il mio magico mondo è scomparso, sto quaggiù nella realtà fetida, la fiaba si è dissolta, la mia principessa mi ha abbandonato, il nulla avanza e tutto distrugge. Quaggiù vivevo un istante magico, ora non so se potrò ricostruirlo a casa mia, come facevo da fanciullo, salendo su monte Calvo in compagnia della mia principessa.  Il problema è che la ricerca della Principessa è irta di pericoli, le streghe hanno tutto l'interesse a distruggere la fiaba, la poesia, è una battaglia di sopravvivenza. Il magico mondo delle fiabe, quello dove vivono i bimbi, non si addice alle streghe, che sanno prendere le fattezze di chiunque tanto da confondersi con Fate e Principesse.
E per di più le loro arti ammaliatrici sono irresistibili.....Loro vogliono distruggere l'animo umano, la poesia, le emozioni, le fiabe, i tramonti e le albe che fanno battere il cuore, lo stormire delle foglie, il cinguettio degli uccelli, il volo delle poiane. A loro non interessa il fragile fiore del deserto che cerca anch'esso un cuore che lo faccia sopravvivere.  http://viaggievisioni.blogspot.it/2012/04/il-fiore-ed-il-deserto.html . Ma non dobbiamo rinunciare alla ricerca. Io dovrò tentare, ne ho bisogno….solo colui che vive il magico mondo delle fiabe, della poesia, salverà la natura, gli altri neppure sanno di vivere nel mondo delle Streghe ....“ Come era verde la mia valle”….
 
PS. Le strade asfaltate sono state delimitate da un muro di cemento invalicabile alle automobili con solo alcuni punti di accesso.
Questo ha permesso di limitare l’invasione del deserto a chiunque si trovi a passare, ma non ha certamente impedito ai venti di traportare l’immondizia della civiltà . Una sola consolazione. Il deserto sarà ancora li quando l’uomo sarà scomparso e tutto tornerà pulito. Il deserto tutto distrugge, il suo alleato invincibile è il tempo immutabile.
Allora tornerà ad essere il luogo dove “…il Signore dei fedeli possa riposare in pace”, il luogo delle fiabe, dei folletti, delle fate e delle bellissime principesse…

(N.d.r. le foto si riferiscono esattamente ai posti descritti, anche temporalmente)