martedì 20 marzo 2012

FULL SKI



L’inverno era iniziato proprio bene e quindi mi organizzai una minima attrezzatura da sci e partii per i monti.
I  Finanzieri mi avevano regalato un paio di attacchi da sci alpinismo, gli Zermatt Nepal. Erano gli attacchi che usavano loro e quindi erano proprio buoni, per i tempi.
Forse si erano stufati di accompagnarsi con uno sciatore che girava ancora con le cinghie fisse o forse semplicemente si vergognavano di farsi vedere con uno sciatore del 1900.  Ma forse me li regalarono solo perché erano veri amici.  Qualche anno dopo mi regalarono anche un loro paio di sci e da allora le cose cambiarono.
                                            (La fiera grinta di uno scialpinista del 1970)
Comunque quell’anno  si era messo bene perché un mio conoscente, dovendo ripulire la cantina, mi aveva invitato a vedere se potevano servirmi degli sci che lui non usava più.  Erano sci dell’ anno precedente, ma erano sicuramente migliori dei miei poveri sci di legno con le lamine rotte.  Erano 4 0 5 paia, perfettamente efficienti ed io, nel dubbio, caricai tutto.  Trasferii tutto nel mio basso e mi accinsi alla scelta. Un paio era lungo 2.20 m. ed erano da escludersi come sci da alpinismo, ma li riservai per le discese estreme.  Un paio era lungo 2 m. ed ha fatto bella mostra di se ai miei piedi, fino al 1991, anno in cui li ruppi all’uscita di Valle Fredda urtando contro un masso.  Ancora li conservo nella mia cantina, come una reliquia.  Un altro paio sembrava fatto apposta per lo sci-alpinismo. Erano alti 180 cm, di colore rosso, i RED TEMPEST, la tempesta rossa, abbastanza leggeri per l’epoca.
(1970. Con tecnica approssimativa si scendeva su pendii ripidissimi. Dente del Lupo.Nord Camicia)
Vi fissai gli attacchi e mi accinsi a provarli. Voi direte sulla neve! No, non potevo resistere e li provai a secco. Per vari giorni saltai con gli sci ai piedi nel pavimento della mia cantina, non prima di aver coperto il pavimento con cartoni da imballaggio.
Come già ho detto, la tecnica non era proprio quella che oggi si chiamerebbe CONDUZIONE, anzi era più una gara di salto in alto che una scivolata e quindi allenarsi, per me, significava saltare in qualunque terreno, purchè avessi gli sci ai piedi. 
Questo modo di considerare lo sci mi portò, quello stesso anno, a compiere delle “imprese” che nascondevo accuratamente onde non esser considerato un demente.  Non vi meravigliate. Allora non era concesso allontanarsi dai sacri canoni dell’alpinismo e dello sci. Il montanaro era come un integralista religioso che doveva seguire pedissequamente il proprio credo. Solo qualche anno avanti tutto cambiò ed oggi si fa a gara per inventarsi modi sempre diversi di concepire la montagna, ma i primi fummo noi.
                                  (Fuoripista con sci di 2 metri e 20 cm....eppure giravano!)
Avendo quindi la disponibilità di sci vecchi, quelli dei Vigili del Fuoco, potetti sbizzarrirmi ad allenarmi a secco. Scelsi pendii ripidissimi di terra, poi di erba. La falasca era l’erba migliore e poi osai l’inosabile, e cioè i brecciai.  Ogni pendio fornito di brecciaio faceva per me. Il primo fu la sella del Brecciaio (non a caso) che a quel tempo era magnifica, poi l’Intermesoli, con il lunghissimo canalone che si getta sul Venaquaro, poi il Corvo, con i pendii sud. Emigrai quindi nel regno dei brecciai, e cioè il Velino.  Certo, gli sci duravano poco, ma ora li avevo ad oltranza perché qualunque tipo di tavole andavano bene. Ripulii non so più quante cantine dagli sci disastrati ed inoltre raccoglievo alla stazione superiore tutti gli sci scoppiati, tanto tutto faceva brodo.  Nelle gambe avevo l’agilità di una gazzella e la forza di un toro. Riuscivo a girarmi in aria di 180 gradi come se fosse la cosa più facile di questo mondo, per decine di volte di seguito, in qualunque tipo di terreno. Sulla neve non avevo fatto un solo minuto di lezione di sci, e si vedeva bene. Avevo imparato, se così si può dire, direttamente sul campo, da solo, con tentativi ed errori. Tentavo qualunque tecnica finchè gli sci non giravano e quindi la provavo e riprovavo finchè la curva mi riusciva. Poi cambiava la neve e tutto ricominciava: nuova tecnica e nuovi tentativi.  Tutto ciò accadeva accuratamente fuori pista e lontano dagli occhi indiscreti degli sciatori classici.
                  (1971 Con tecnica migliorata dalla cima del Camicia sul rifugio fonte Vetica)
Il mio primo approccio con la neve fu quantomeno tragico. Era forse il 1968 ed io ed un mio amico, decidemmo di salire il Velino con gli sci. A quel tempo abitavo ad Avezzano e conoscevo perfettamente il Velino. Ma non sapevo che esistevano delle tavole che permettevano di scivolare sulla neve. Gli sconosciuti mi furono presentati la mattina stessa della partenza. “Questi sono gli sci” disse. “ Tanto piacere!” risposi. Erano un suo vecchio paio di sci che io non sapevo neppure da che parte si dovessero mettere. Intuii che le punte ricurve dovevano essere rivolte in alto ed in avanti, ma anche di questo avevo seri dubbi.  Chi conosce il Velino sa che cosa è il pendio ovest che si getta con un sol balzo dalla cima (2487), fino a Rosciolo (circa 750) con una inclinazione a dir poco terrifica per quella attrezzatura e per quella tecnica (nulla).. Arrivammo alla cima trascinandoci gli sci con un cordino (era una tecnica proibita dagli integralisti) e poi, dopo un congruo periodo di riposo dovuto più a ritardare la discesa che alla stanchezza, partimmo.
Potete ben immaginare cosa possa significare scendere per un ripido pendio, fuori pista, per un pover’uomo che non ha mai messo gli sci ai piedi. Vi risparmio le descrizioni, ma sappiate che non una sola volta caddi, e questo fu dovuto al fatto che una caduta mi avrebbe portato direttamente a Rosciolo.  Comunque  1300 m. più in basso avevo imparato a scendere perfettamente in diagonale ed anche ad accennare qualche curva, ovviamente saltata.  Ma il fatto di essere sopravvissuto già era una vittoria e non me ne resi conto. Lo capii circa 10 anni più tardi, quando vi tornai con alle spalle una tecnica certamente più solida ed una attrezzatura sicuramente più adeguata. Il pendio è vertiginoso, non me lo ricordavo. Cadere significa quasi certamente  arrivare fino alla base, sfracellandosi sulle rocce sporgenti. Ebbi un attimo di esitazione quando mi affacciai alla cresta sommitale e capii solo allora quali rischi avevo corso quel giorno. Evidentemente esiste un Santo protettore degli alpinisti stupidi e sprovveduti.
Quel Santo si deve aver dato molto da fare con me negli anni successivi.
La conoscenza di Gianni mi invogliò ad imparare a sciare, ma la cosa non mi è mai veramente riuscita. Egli era un ottimo sciatore e mi dava qualche consiglio quando veniva con me a fare qualche gita fuori pista.

      (1976. Verso la vetta di Corno Grande con gli amici del Soccorso della Guardia di Finanza)
Salimmo l’onnipresente m. Calvo ed i soliti pendii classici, la Portella, i Valloni, Le Toppe del Ramino, il Camicia.  Altri pendii più ripidi a quel tempo neppure venivano ipotizzati. Quelli che scendevamo erano al limite della mentalità dell’epoca.  Passai quindi tutto l’inverno sulla neve, cercando di migliorare la mia personale tecnica perché mi rendevo conto se l’avessi migliorata avrei potuto osare molto di più.  Voi direte che avrei potuto prendere delle lezioni, ma la cosa era praticamente impossibile per varie ragioni. Una era la solita cronica mancanza di quattrini, ma  questa volta non era la principale. Si doveva fare i conti con il mio carattere che non mi permetteva di mettere piede sulle piste ed inoltre prendere lezioni, per me, significava non andare in montagna e quindi la consideravo perdita di tempo.  Poi non avevo il benchè minimo complesso di inferiorità nei confronti dei più bravi sugli sci.  Mi cullavo del fatto che, quando ci eravamo trovati fuori pista, neppure i maestri di sci mi avevano lasciato indietro. In qualche traversata alta addirittura ero andato avanti io, nella nebbia. Ma la ragione principale era che non me ne fregava nulla. A me bastava la montagna, come andarci era completamente indifferente. Ma non crediate che io, dopo il 1970, non avessi imparato a sciare. Vi racconto la storia. Mio padre, un bel giorno del 70 mi disse se volevo andare con lui a Rocca di Cambio perché aveva un amico titolare di un negozio di sci e quindi avrei potuto acquistare a prezzo di favore degli sci da fondo. Certo, avete capito bene, sci da fondo. Io fui entusiasta perché quelle tavole mi avrebbero permesso di muovermi con un  raggio d’azione maggiore, in inverno. Purtroppo per lui, mio padre aveva pensato che il possesso di sci da fondo mi avrebbe relegato sulle piste tracciate, ma si sbagliava di grosso. Acquistai un ottimo paio di sci da fondo, il migliore dell’epoca, di fibra di vetro, leggerissimi. Era il primo sci in commercio fatto di fibra, il successore diretto degli sci di legno. Uscii fornito di tutte le scioline occorrenti e di un bellissimo paio di scarpe. Mio padre non mi aveva regalato degli sci, ma un paio di ali.  Con quegli sci da fondo percorsi tutto il percorribile ed anche l’impercorribile. Ogni tanto sbagliavo sciolina oppure mutava la neve ed allora si formava uno zoccolo che impediva il cammino, ma ciò faceva parte del folclore e non mi preoccupavo. Un giorno partii da Arischia, salii alle Capannelle, lungo la strada innevata e scesi al lago di Provvidenza, poi su, lungo il Chiarino fino alla sella e poi mi gettai nel Venaquaro fino a Pietracamela.  Da li scesi alla statale 80 dove ripresi il pulman fino all’Aquila.  Passava quindi veloce anche quell’inverno e aspettavo impaziente la primavera che mi avrebbe permesso di affrontare in tutta sicurezza alcuni pendii notoriamente pericolosi in inverno.  Ma quella primavera sarebbe stata diversa perché avrei assistito a cosa può fare la natura quando si scatena. Avrei visto la più grande e spaventosa  valanga che memoria d’uomo ricordi sul Gran Sasso.

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