martedì 20 marzo 2012

1975. IL RIFIUTO

Il 1974 si chiudeva così, come era iniziato, nel peggior modo possibile. Il capodanno del 1975 fu triste, per me. Ricordo che durante i festeggiamenti di fine anno, a casa di amici, appena stappate le bottiglie di spumante, Gianni, che conosceva Piergiorgio ed era l’unico della comitiva che andava in montagna, ebbe la malsana idea di ricordare l’amico .
Mi rovinò non solo il capodanno, che già era rovinato, ma anche tutti i giorni successivi, quasi che avessi preso coscienza solo quella notte della tragedia.
A tanti anni di distanza non voglio ricordare quei giorni. Cerco di cancellare ancora la funzione religiosa e la gita al Fondo della Salsa il mese successivo. Andammo tutti noi del Soccorso, gli amici della Finanza e del CAI fino sotto la parete nord del Camicia dove un sacerdote ricordò Piergiorgio. Avrei voluto non esserci andato, ma c’ero. I mesi successivi rimasi lontano dai monti con la scusa degli impegni universitari e sportivi.
Io sapevo che non era vero.   Non si trattava di paura, ma di demotivazione. Non avevo più alcuna voglia di andare sui monti, anzi quasi li odiavo perché mi avevano sottratto un amico. Non riuscivo più ad avere le idee di qualche tempo prima, quando consideravo la morte come una parte irrinunciabile del fascino delle pareti.
Non avevo paura di una mia ipotetica morte, ma non mi interessava più salire, e rimanevo sulle pianure senza alcun rimpianto. La neve venne copiosa e vedevo i pendii carichi e lisci, ma non mi interessava più nulla. Altri amici tentarono di convincermi ad andare con loro, in gite senza pericolo. Ma il problema non era quello, e loro non lo capirono.  Alla fine mi lasciarono stare perché almeno mi  conoscevano al punto da sapere che il mio isolamento era atavico e radicato e non avrebbero potuto mai farmi cambiare idea.
La neve si scioglieva lentamente mettendo in risalto i canaloni perfettamente idonei a magnifiche discese. Neppure i loro racconti  mi misero una benchè minima voglia di tornare. Non avevo invidia per loro. Era una mia scelta. Quei mesi non partecipai neppure ad alcuni soccorsi. La cosa, quindi era molto grave, tanto che non mi chiamavano più quando bisognava partire per soccorrere qualche alpinista.
Finalmente la neve scomparve dai versanti sud ed un bel giorno presi uno dei miei potenti binocoli e lo puntai verso Corno Grande.  Solo una esile lingua ancora resisteva sul Bissolati  e sulla direttissima ed il sole inclinato del pomeriggio metteva in risalto le rocce e i canaloni.
Ebbi un fremito e pensai che forse era arrivato il momento di tornare, ma questa idea presto scomparve e solo un mese dopo, alla fine di giugno trovai il coraggio di avviarmi verso Corno Grande.
Partii da Campo Imperatore senza meta precisa, evitando appositamente tutti gli amici del CAI. Non volevo andare con loro. Arrivai alla base della direttissima  e vidi delle persone che salivano verso la vetta. Mi diressi quindi verso il bivacco e salii alla forchetta del Calderone. Aggirai il terrazzone e arrivai sotto il torrione Cambi, che conoscevo bene. Salii alla forchetta Gualerzi ed arrivai in vetta. Mi fermai a vedere le nubi rincorrersi. Dal vallone dell’Inferno salivano i primi cumuli estivi che s’innalzavano imponenti oscurando il sole.
Decisi di scendere prima dello scatenarsi di qualche temporale e mi diressi verso il camino Iannetta. 
(Il camino Iannetta)
 Tale camino è una via di discesa diretta verso la Forchetta del Calderone e deve essere superata  con  corde doppie.  Io non portavo corde, ma spesso ero sceso da quella via e non mi ero mai creati problemi. E’ un bel camino, all’inizio poco difficile, su roccia buona, ma poi diventa più difficile, gli appigli scompaiono, la roccia è friabile, ma allargando le gambe , può essere superato con relativa  difficoltà ( 4 grado).
E lì mi bloccai. Per la prima volta ero veramente paralizzato. Cercai di ragionare. Stavo scendendo, quindi potevo sempre risalire. Dovunque si scende, risalire è quantomeno elementare. Ora è facile ragionare, ma in quel momento le cose erano più complicate.  Non era la paura che mi bloccava, ma la demotivazione. Se fosse stata la paura le cose sarebbero state molto più semplici. Mi resi conto che NON VOLEVO più camminare, non mi interessava. Non volevo essere lì. Perché ero salito? In quel momento invidiai tutti coloro che non stavano in montagna e quindi praticamente tutti.  Invidiai tutti i miei amici che continuamente mi chiedevano cosa andassi a fare sempre in montagna e che in quel momento sicuramente si trovavano sotto i portici.
Mi abbarbicai ad un esile sporgenza e li mi fermai per un tempo lunghissimo, comunque non quantificabile, fino a che un sordo brontolio non mi risvegliò. Un tuono seguì il flebile brontolio e riecheggiò tra le rocce del Piccolo. Dovevo scendere perché il temporale si avvicinava a grandi passi. Mi scossi e iniziai la discesa che si rivelò essere più facile di come me la sarei aspettata. Del resto vi ero sceso almeno 4 o 5 volte.
Arrivai all’albergo mentre grandi gocce di pioggia bagnavano il piazzale con la promessa fatta a me stesso che non sarei tornato più.
Sabato però incontrai Robertino. Dovete sapere la storia di Robertino. Io ero, e sono, amico di sua sorella e attorno ai primi anni 70 spesso andavo a sciare con lei ed con  altri trascinandomi dietro quello che era il fratellino piccolo, un minuscolo bimbo alto come un soldo di cacio e pesante altrettanto. Ma il bimbo crebbe in fretta e quindi lo portai ad arrampicare alla palestra di Lucoli e di S.Giuliano. Col tempo egli si appassionò talmente che presto superò il “maestro” (tra virgolette) e divenne guida alpina. Comunque mi chiese, quel sabato, se la domenica seguente saremmo andati a fare qualche via . Con noi  sarebbe venuto anche Remo.  Probabilmente fu colpito il mio orgoglio oppure il mio istinto paterno, ma non seppi dirgli di no. Anzi, penso che fui addirittura contento.  Senza falsi pudori, devo dire che questa parte di “maestro” verso Robertino mi inorgogliva alquanto ed anzi qualche volta addirittura mi mancava. E forse in quel momento era la cosa che ci voleva.
Partimmo la mattina presto con l’850 di mio padre ed arrivammo a Campo Imperatore con un tempo magnifico. Non sapevo che quella sarebbe stata un’altra giornata che avrebbe segnata la mia vita di montanaro

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